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Sentenza tribunale di mMlano

Sì alla sospensione dell’ordine di esecuzione

Quando ai condannati per reati contro la p.a. è riconosciuta l’attenuante prevista dall’art. 323 bis c.p.

Con l’ordinanza in commento il Gip presso il Tribunale Ordinario di Milano in funzione di giudice dell’esecuzione ha accolto l’incidente di esecuzione proposto dal condannato, detenuto in espiazione di pena definitiva inflitta, tra l’altro, per il reato di corruzione previsto dagli artt. 321, 319 e 319 bis c.p., attenuato ai sensi dell’art. 323 bis c.p.

Il condannato era stato destinatario di ordine di esecuzione per la carcerazione, essendosi reso responsabile, in data successiva all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019 c.d. “spazzacorrotti” del reato di corruzione, da quel momento inserito nel novero dei reati ostativi alla concessione di benefici penitenziari ex art. 4 bis O.P.. 

Per tali reati c.d. ‘ostativi’, infatti, l’art. 656 comma 9 lett. a) c.p.p. stabilisce il divieto per l’organo dell’esecuzione di emettere decreto di sospensione dell’ordine di esecuzione, anche quando, come nel caso di specie, la pena da espiare sia inferiore ad anni 4 di reclusione e, dunque, astrattamente suscettibile di sospensione, quantomeno sotto il profilo “quantitativo”.https://www.questionegiustizia.it/articolo/si-alla-sospensione

Proprio il tenore letterale della norma da ultimo citata avrebbe impedito, secondo l’impostazione della Procura, di aderire alla richiesta della difesa di emissione di un contestuale decreto di sospensione, sicché in ogni caso avrebbe dovuto darsi luogo alla carcerazione del condannato per reati ‘ostativi’ ai sensi dell’art. 4 bis O.P.. 

Il Pubblico Ministero aveva richiamato, sul punto, l’orientamento giurisprudenziale che aveva affermato che «il rinvio dell’art. 656, comma 9, lett. a) cod. proc. pen. ai delitti di cui all’art. 4-bis ord. Pen. è limitato al mero richiamo delle previsioni di legge contemplanti i reati ostativi, senza estendersi a condizioni e presupposti necessari – internamente alla disciplina penitenziaria – per superare l’ostatività ‘penitenziaria’ ossia quella all’accesso ai benefici….. La ratio dell’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. riposa nella presunzione di pericolosità derivante dal mero titolo di reato per cui è intervenuta la condanna, presunzione che non può ritenersi incompatibile con i principi costituzionali, in quanto fa prevalere la regola dell’esecuzione di una condanna definitiva sull’eccezione della sospensione dell’esecuzione (Cass. Pen. Sez. V sent. 10.01.2022 n. 358 e in senso conforme Cass. Pen. Sez. I sent. 17.05.2019 n. 27354 – Cass. Pen. Sez. I sent. 2.04.2008 n. 16741 – Cass. Pen. Sez. I sent. 31.01.2008 n. 8978 – Cass. Pen. Sez. IV sent. 18.09.2012 n. 43117 – Cass. Pen. Sez. I sent. 12.04.2000 n. 2761)».

Inoltre, sempre secondo la pubblica accusa, il Pubblico Ministero non avrebbe avuto alcuna competenza in punto di «valutazione, ai fini della sospensione dell’esecuzione, della sussistenza o meno dei requisiti richiesti dalla legge per l’ammissione del condannato ai benefici penitenziari, essendo tale compito riservato alla competenza esclusiva del Tribunale di Sorveglianza e dovendo l’organo dell’esecuzione limitarsi alla mera constatazione della presenza di titoli ostativi alla sospensione (Cass. Pen. Sez. V sent. 10.01.2022 n. 358, nonché, in modo concorde Cass. Pen. Sez. I sent. 20.12.2012 n. 14331 – Cass. Pen. Sez. II sent. 15.04.2000 n. 1443)».

Una diversa lettura del combinato disposto delle norme di legge sopra richiamate (art. 656 c.p.p. e art. 4 bis O.P.) avrebbe necessitato, in quest’ottica, poichè contrastante con l’incontrovertibile dato testuale, di un intervento della Corte Costituzionale. 

Con l’incidente di esecuzione proposto la difesa del condannato ha tuttavia evidenziato l’illegittimità dell’ordine di carcerazione emesso dalla Procura, domandando al giudice dell’esecuzione di dichiararne l’inefficacia e rilevando come, in realtà, il medesimo art. 4 bis O.P. prevedesse esso stesso un’eccezione rispetto al regime di ostatività ivi sancito. Eccezione che avrebbe dovuto necessariamente operare, secondo la tesi difensiva, anche rispetto al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione di cui all’art. 656 comma 9 lett. a) del codice di rito, pena l’illegittima recisione di qualsivoglia «legame tra sospensione dell’ordine di esecuzione e l’accesso alle misure alternative alla detenzione». 

Il primo comma dell’art. 4 bis O.P., infatti, stabilisce che le misure alternative alla detenzione (eccetto la liberazione anticipata) possono essere concesse ai detenuti e internati per talune categorie di gravi delitti «solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia a norma dell’articolo 58 ter della presente legge o a norma dell’articolo 323 bis, secondo comma, del codice penale […]».

Tale eccezione, pertanto, riguardava tutti quei casi in cui, pur in presenza di una condanna per gravi reati contro la pubblica amministrazione (nello specifico, i delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, 319 quater, primo comma, 320, 321, 322, 322 bis c.p.), era stata riconosciuta in giudizio l’attenuante di cui all’art. 323 bis c.p., a mente della quale la pena deve essere diminuita nei confronti di chi «si sia efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite”.

Nell’ordinanza in commento, dopo un breve excursus sulla esegesi della sospensione dell’ordine di esecuzione, “evidentemente volta a scongiurare l’ingresso in carcere per periodi brevi di coloro che potrebbero essere destinatari di una misura alternativa alla detenzione», e sul nesso sussistente tra tale istituto e le misure alternative alla detenzione, il giudice si è soffermato sulle novità introdotte con la legge “spazzacorrotti”.

Ha evidenziato, in particolare, come la suddetta previsione inserita nell’incipit dell’art. 4 bis O.P. si spiegasse «con la necessità di non consentire l’accesso alle misure alternative se non a fronte della collaborazione con la giustizia, sulla scorta di un modello di legislazione preliminare già sperimentato in relazione ad altri settori (criminalità organizzata in primis) nei quali si poneva la necessità di spezzare la c.d. catena di solidarietà che lega i correi (nel caso di specie corrotto e corruttore et similia)», introducendo di fatto «una normativa premiale per il collaborante».

Normativa che, tuttavia, si differenzia da quella prevista in generale per i collaboratori di giustizia dall’art. 58 ter O.P., sicché non avrebbero potuto applicarsi nel caso di specie i principi di diritto statuiti nei precedenti giurisprudenziali richiamati dal Pubblico Ministero. 

Ed infatti, l’orientamento espresso in tali pronunce si giustificava alla luce delle «peculiari caratteristiche dell’accertamento dei requisiti della collaborazione di cui all’art. 58-ter O.P., che non si risolvono in una mera riproposizione dei presupposti dell’attenuanti di cui all’art.7 l. 203/91 e che, sul piano processuale, sono espressamente riservati alla magistratura di sorveglianza». 

Non solo l’art. 58-ter O.P. fa riferimento a talune situazioni che necessitano di una valutazione in concreto e che possono verificarsi anche successivamente alla condanna (si legge infatti che la disposizione in parola può applicarsi a coloro che «anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati”), ma altresì alla attività istruttoria necessaria per procedere a tale valutazione, riservata appunto al giudice di sorveglianza, che deciderà “assunte le necessarie informazioni e sentito il pubblico ministero presso il giudice competente per i reati in ordine ai quali è stata prestata la collaborazione».

L’attenuante di cui all’art. 323-bis c.p. introdotta con la legge “spazzacorrotti”, invece, è istituto ben diverso, che non implica alcuna valutazione in sede esecutiva: correttamente il Giudice rileva come la legge n. 3 del 2019 «ricollega l’esclusione della natura ostativa dei reati contro la p.a. al riconoscimento della circostanza nella fase della cognizione, senza che permanga alcun margine di apprezzamento al Pubblico Ministero prima e al Giudice dell’esecuzione poi e senza che alcuna norma ne riservi la competenza alla magistratura di sorveglianza». E altrettanto correttamente richiama la giurisprudenza di legittimità in punto di sospensione dell’ordine di esecuzione nei casi in cui vi sia stato riconoscimento, nei casi di condanna per il reato di violenza sessuale ex art. 609-bis c.p., dell’ipotesi attenuata di cui all’ultimo comma della disposizione da ultimo citata.

In tale contesto, dunque, «l’affermazione secondo la quale l’art. 656 comma 9 lett. a) c.p.p. richiamerebbe il solo catalogo dei delitti ostativi e non anche la disciplina dell’accesso alle misure alternative in casi particolari deve, quindi, essere intesa in senso meno rigido di quella proposta dal Pubblico Ministero: andrebbe escluso, infatti, il richiamo a quelle eccezioni all’ostatività che richiedono accertamenti di fatto necessariamente demandati alla magistratura di sorveglianza e non anche agli altri casi».

Pur ammettendo che l’interpretazione proposta dal Pubblico Ministero costituisca, di fatto, una delle possibili letture del combinato disposto degli artt. 656 comma 9 lett. a) c.p.p. e 4-bis O.P., militano nel senso opposto diverse ragioni, sia sotto il profilo testuale, sia sotto il profilo della ratio della norma, sia infine sotto il profilo sistematico. 

Dal punto di vista letterale, infatti, la norma di cui all’art. 656 comma 9 lett. a) c.p.p. richiama i delitti di cui all’art. 4-bis O.P. nel loro complesso e pertanto anche quelli circostanziati che costituiscono un’eccezione alla regola del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione. 

Sul piano della ratio della novella legislativa, poi, l’interpretazione proposta dalla pubblica accusa finirebbe per incidere sul legame tra sospensione dell’ordine di esecuzione e natura ostativa del delitto per cui è intervenuta la condanna, imponendo il necessario ingresso in carcere di un soggetto che ben potrebbe accedere a una misura alternativa alla detenzione senza necessità di particolari accertamenti. Legame certamente esistente, a tutela del quale si è espressa la Corte Costituzionale con la nota pronuncia n. 41 del 2018. In tale occasione, infatti, la Corte era intervenuta per ripristinare la corrispondenza tra requisito temporale per l’accesso alle misure alternative e per la sospensione dell’ordine di esecuzione, venuto meno allorquando il legislatore aveva elevato a 4 anni il limite di pena per l’accesso alle prime senza tuttavia modificare il requisito previsto dal comma 5 dell’art. 656 c.p.p. In tale occasione infatti la Consulta aveva avuto modo di affermare la sussistenza di un “tendenziale collegamento della sospensione dell’ordine di esecuzione con i casi di accesso alle misure alternative”, nesso che costituisce “punto di equilibrio ottimale”, derogabile solo quando “ragioni ostative appaiano prevalenti”. Ragioni ostative, invero, non sussistenti né tantomeno evidenziate da alcuna delle parti nel caso di specie.

Sotto il profilo sistematico, poi, un’interpretazione siffatta finirebbe per vanificare la finalità perseguita dal legislatore con la novella del 2019: «se l’intento del legislatore del 2019, infatti, è quello di spezzare il patto corruttivo, spingendo uno dei due contraenti a tradirlo in cambio (della non punibilità nell’ipotesi radicale di cui all’art. 323-ter c.p. o quantomeno) di un importante sconto di pena, tale scopo rischierebbe di restare del tutto ipotetico se non accompagnato da un regime penitenziario favorevole. Specie ove si guardi a colui che, pur volendo distaccarsi dai correi e rendere dichiarazioni utili, non sia in grado di dare corso alla riparazione pecuniaria di cui all’art. 322-quater c.p. e lucrare così la sospensione condizionale della pena».

Tali ragioni sono state poste dal Giudice a fondamento di una interpretazione c.d. “costituzionalmente orientata” delle norme di legge indicate, senza che fosse necessario sollevare l’incidente di costituzionalità invocato dalla Procura della Repubblica. In altre parole, tra le diverse interpretazioni possibili del combinato disposto degli artt. 656 comma 9 lett. a) c.p.p. e 4-bis O.P., il Giudice ha scelto quella che, alla luce del diritto vivente, non si poneva in contrasto con gli artt. 2 e 27 Cost. Ha dunque accolto l’incidente di esecuzione, dichiarando l’inefficacia dell’ordine di esecuzione emesso e concesso al condannato un termine di 30 giorni per formulare istanza di misura alternativa alla detenzione, ordinandone di conseguenza l’immediata liberazione.

Da questo momento dunque i condannati per reati contro la pubblica amministrazione ai quali è stata riconosciuta nel corso del giudizio l’attenuante ex art. 323-bis c.p. non dovrebbero più necessariamente entrare nel circuito carcerario e dovrebbero poter formulare dalla libertà istanza di misura alternativa alla detenzione in relazione alla quale deciderà il Tribunale di Sorveglianza competente. Al Pubblico Ministero, pertanto, in sede esecutiva dovrebbe spettare il compito di verificare se in giudizio è stata ritenuta l’attenuante menzionata, senza alcuna valutazione in punto di presupposti ulteriori che restano estranei alla propria competenza. 

La decisione non può che essere accolta con favore: ancora una volta la giurisprudenza mostra di essere attenta e sensibile rispetto ad un tema, quello del carcere, che troppo spesso viene strumentalizzato per raccogliere consenso.  

Che senso ha infatti l’“assaggio di carcere” rispetto a condannati che con la condotta processuale ed il risarcimento del danno hanno mostrato un grado di consapevolezza del reato e di “rieducazione” tale da consentire la formulazione da parte della Magistratura di sorveglianza quel giudizio prognostico favorevole che è alla base di una misura alternativa alla detenzione? 

La domanda per chi scrive appare retorica. Ovvio. Tuttavia la pregevole posizione del Gip di Milano non è ancora consolidata e la pendenza del ricorso per Cassazione da parte della Procura di Milano conferma che la soluzione del problema è tuttora controversa. 

Fonte: questionegiustizia.it

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